Milano. Ieri, oggi, domani
Gli amanti di Milano amano l’architettura che ha saputo generare questa città, sia in epoche lontane, sia in anni più recenti. Gli ultimi due secoli hanno lasciato in eredità testimonianze importanti e con stili molto diversi: dal liberty al neogotico, dall’eclettismo al razionalismo. L’elenco non è esaustivo e non vogliamo, in questa sede, ripercorrere la storia dell’architettura.
Ma questi edifici hanno vinto, a modo loro, la prova del tempo. Ancora oggi li ammiriamo nella loro forza culturale e formale. Alcuni, magari, li sentiamo più vicini alla nostra sensibilità, altri meno: tutti sono figli legittimi e riconoscibili del loro tempo.
Per curiosità e per lavoro, di contro, accade speso di entrare nelle molte “operazioni immobiliari” di questi anni, quasi sempre gestite dai pochi gruppi che hanno in mano, di fatto, i grandi progetti di Milano. Senza entrare nel merito dei singoli palazzi, più o meno convincenti, possiamo condividere alcuni tratti ricorrenti, non sono proprio positivi.
La prima osservazione è la somiglianza di tutti i nuovi palazzi, volendo anche escludere l’area di City Life, e la sensazione è che siano spesso fuori contesto, non vedendo un dialogo con ciò che li circonda. Ora, nessuno sostiene la teoria dell’inserimento filologico del nuovo in un contesto storico, ma quando un’architettura, nella sua mancanza di identità, potrebbe essere ovunque, abbiamo un problema. Perché ovunque vuol dire “da nessuna parte”.
Ed ecco facciate tutte uguali, con finestre troppo piccole (per ragioni di classe energetica) o troppo grandi, ma con vista sulla circonvallazione e non sull’Hudson river. Ed ancora portinerie – ora chiamate più elegantemente “conciergerie” – che ci riportano al calore dell’ospedale San Raffaele, senza voler scendere alla qualità dei materiali, bellissimi nei rendering ma quasi sempre scadenti nella realtà.
Il tema della qualità scarsa dei materiali utilizzati, ed anche del livello di esecuzione dei lavori, lo abbiamo riscontrato costantemente negli ultimi tempi. Questo dispiace, soprattutto tenendo conto dei valori di vendita degli immobili. Non vi è un rapporto reale.
Se ci spostiamo all’interno dei nuovi edifici, abbandonando per un momento le facciate e gli spazi comuni – oggi definiti “ancillari” – per entrare nei singoli appartamenti, arriviamo ad un altro punto piuttosto dolente: il distributivo degli spazi. Qui si apre un altro punto critico legato alla difficoltà di gestire ed arredare distributivi poco funzionali: troppo grandi o troppo piccoli, con angoli improbabili o crivellati da pannelli e schermi di domotica o altri apparati tecnologici. Abbiamo ingressi con più tecnologia dell’Apollo 11.
Un esempio concreto di un attico che abbiamo seguito di recente: siamo stati costretti a spostare la primary room poiché un letto fuori misura non consentiva l’apertura verso l’interno di un infisso grande come il portone di San Pietro. Ora, vi sembra normale che un appartamento importante abbia una stanza dimensionata in modo così preciso da non consentire il posizionamento di un letto più lungo di 15 cm rispetto alla misura standard? Il vero lusso – per usare un termine che non amiamo – è lo spazio, non certo la dimensione (errata) di un infisso.
Trascuriamo il fatto che appartamenti importanti, per dimensione e budget dedicato, non hanno più un ingresso vero e proprio, non hanno più un ripostiglio, che regolarmente ci dobbiamo “inventare”, e ripropongono sempre la stessa sequenza: open space con cucina a vista, isola con sgabelli, tavolo dining, divano e mobile tv. Che noia!
Vogliate notare che il blocco in sequenza – cucina, isola con sgabelli, tavolo dining – “ruba” quasi sempre metà dello spazio disponibile, a discapito della zona living. Ora, se ho già un tavolo pressoché attaccato, qual è il senso di avere, ad un metro di distanza, un bancone con sgabelli? Divertitevi a curiosare sui rendering delle case di nuova costruzione. Sono quasi tutte così. Qui non parliamo di estetica, che può essere soggettiva, parliamo di funzionalità.
Difficile sapere cosa penseranno i posteri quando entreranno nelle nuove architetture, se reggeranno lo scorrere del tempo. La sensazione che rimarrà poco di valido è forte, assieme alla sensazione che un approccio commerciale e meramente speculativo stia prevalendo su un approccio culturale.
È come se l’architettura e la casa – beni durevoli per loro natura – si siano oggi allineate alle logiche delle immagini social, per le quali il fattore importante è sorprendere con velocità. Ma per passare all’immagine successiva, su un telefonino, basta sfiorare lo schermo con un dito, per cambiare una casa serve un’impresa di costruzioni e qualche risorsa in più. Pensiamoci.