“Useless Bodies” VS useful lives
USELESS BODIES è il titolo della mostra che abbiamo visitato in Fondazione Prada a Milano, aperta fino al prossimo 22 agosto.
Le opere del duo di artisti Elmgreen & Dragset esplora la condizione del corpo – e in fondo anche della mente – nell’era post-industriale, un tempo nel quale la fisicità è sempre più messa in discussione dalle interazioni virtuali.
È chiaro che questo cambiamento epocale ha forti ripercussioni in ogni ambito delle nostre esistenze: dal lavoro, alle amicizie, dalle relazioni umane alla configurazione dei nostri spazi quotidiani. E tutto questo accade perché l’architettura dell’esistenza, ancor prima di quella materiale, è minata alle fondamenta.
Le installazioni immersive, che vi invito a visitare, rappresentano dimensioni in bilico tra quotidianità e desolazione; sembrano un invito a fermarci, a riflettere, non tanto sul senso della vita, quanto sull’autocoscienza della vita stessa. Perché il messaggio subliminale, che pare emergere, è proprio un appello a riprendere il filo perduto delle cose, senza nostalgia. Non vuol essere un ritorno all’Arcadia, ad un passato ormai cristallizzato nella memoria collettiva, ma una sollecitazione emotiva a guardarsi dentro.
Camminando all’interno dell’ufficio vuoto, ripetitivo ed ossessivo, messo in scena al primo piano della Fondazione, pensavo a quanto anche le nostre abitazioni – cartina di tornasole delle nostre vite – siano spesso luoghi abbandonati, vissuti passivamente, oppure, di contro, messi in scena per pubblicazioni bidimensionali. In entrambe le situazioni c’è un problema.
La verità, se si può usare un termine così forte – ma sarebbe forse meglio parlare di sensazione – è che abbiamo perduto il vero senso della vita, del tempo condiviso, del piacere reale delle cose. E più ci sforziamo di “vendere” le nostre vite on-line, più manifestiamo la nostra solitudine, la nostra crescente incapacità di vivere il confronto reale, materiale, corporeo, umano. Viviamo un’epoca di estrema immaturità collettiva.
Vi è un altro aspetto interessante che rivela l’intento degli artisti di interrogarsi e di interrogarci, tra le altre cose, sul senso delle nostre abitazioni. In una parte della mostra accade di muoversi in ambienti asettici, fantascientifici, senza più calore, dove l’unico rimando alla vita è rappresentato da un cane robot accasciato al suolo; e non distante appare un cadavere fuoriuscire da un obitorio in acciaio.
Il mio pensiero alla conclusione della visita – che ha attraversato uno spogliatoio abbandonato con armadietti aperti e contenenti oggetti coerenti e incoerenti – è quello di aver percorso delle scale sbagliate, con gradini irregolari, scendendo i quali rischi di cadere ad ogni passo.
Non so se sia corretto ricercare una “morale” quando ci si muove nell’arte contemporanea, ma avendo sempre avuto la sensazione che proprio quest’arte sia capace di leggere ed anticipare i tempi, credo sarebbe molto importante fermarsi e mettere in discussione i meccanismi all’interno dei quali viviamo o “siamo vissuti”.
È un appello a riprendere il filo delle relazioni, a vivere le case in modo tridimensionale, a condividere la dimensione reale dell’esistenza con le persone che amiamo, a considerare il tempo il primo valore.
La parola chiave per il futuro? Umanità, di noi stessi, dei rapporti, delle abitazioni.
Abbiamo perso una dimensione della vita, torniamo tridimensionali.